A Daniele, allievo “cristallo” che mi è stato Maestro.

01 Set
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CHI MI HA INSEGNATO AD INSEGNARE.

A volte qualcuno mi chiede cosa abbia determinato il mio modo d’essere insegnante.

Ebbene, se mi fermo a pensare, un mio grande maestro è stato Daniele.

Aveva 17 anni, ma quando ha iniziato a “farmi scuola” ne aveva solo sei.

Era arrivato per mano alla sua mamma in 1*elementare, come tutti i suoi 24 compagnetti. Ma io sapevo che dovevo stare molto attenta a lui perché era un cristallo prezioso. Aveva già fatto tanti giorni d’ospedale nei primissimi anni di vita e diverse operazioni. Stava bene, ma il suo cuore non poteva sopportare gli entusiasmi e le corse a perdifiato che tanto amano i bambini.

Paola, la sua mamma, mi aveva spiegato la sua storia senza drammatizzare, col coraggio di una leonessa attenta al suo cucciolo ferito, senza che lui se ne accorga troppo.

Quando iniziai a lavorare con Daniele sperimentai la sensazione di muovermi in una cristalleria: dovevo avere garbo, non potevo fare azzardi; il bellissimo bimbo che mi veniva affidato nelle ore di scuola poteva infrangersi! Quando guardavo quei suoi occhi grandi e rotondi che si annoiavano sul quaderno e si illuminavano nell’ora di educazione fisica, coglievo però tutt’altro: una grande forza!

Ma come potevo portare in palestra un cristallo? Piano piano Daniele mi insegnò il “patto educativo” e la “progettazione partecipata”. Lui voleva sapere, chiedeva sempre cosa avremmo fatto, non accettava di non far parte delle attività, eppure io non potevo “correre” il rischio.

Cosi imparammo il “bottom – up” e le strategie di “patteggiamento”: lui chiedeva la partita, io gli proponevo i primi due giri di riscaldamento leggero; lui rilanciava col primo tempo e io gli proponevo il primo tiro e tutti rigori, poi un po’ in panchina…. finché un giorno finalmente riuscii a dirgli: “Daniele vorrei con tutto il cuore che tu giocassi, ma è troppo rischioso e io sono così  preoccupata…”

Daniele mi guardò  fisso negli occhi e rispose: “Stai tranquilla maestra, io so quando fermarmi!” Aveva lo sguardo di un adulto che ha già camminato tanto e sa cosa deve fare.

Fu così che imparai a condividere i problemi scolastici con miei piccoli allievi, accogliendo le loro soluzioni. Non sapevamo ancora che si chiamava “problem solving”, ma imparammo a praticarlo.

Un giorno decidemmo la gita al mare. Ma…? Quando ne parlai con la mamma le dissi subito: ” Daniele non può mancare, piuttosto la gita non la facciamo”.  E Paola mi insegnò il coraggio di accompagnare la fragilità senza soffocarla: aveva paura, ma sapeva che un figlio cresce solo se può sperimentarsi. Quando le proposi di venire con noi, mi disse che era meglio di no, a Daniele non sarebbe piaciuto. Decidemmo allora di telefonarci ogni due ore; i telefonini erano ancora una rarità, ma ce ne procurammo uno per l’occasione.

Così imparai che non esiste scuola senza “patto scuola-famiglia” e l’esperienza educativa di un genitore aiuta gli insegnanti ad insegnare ( pedagogia dei genitori).

Trascorremmo insieme 5 anni cioè più 1000 gg di scuola. Nella classe c’erano altri bimbi che si facevano guardare ben più di Daniele e questo era un bene. Dopo le elementari, lui intrecciò altre classi ed altri insegnanti e io iniziai a far scuola a suo fratellino che – com’é strana la vita! – amava molto più i libri che il pallone.

Io e la sua mamma eravamo diventate amiche e ogni incontro era un aggiornamento del suo percorso. Ridevamo della diversità dei due fratelli; chi doveva sta calmo, aveva l’argento vivo addosso e chi poteva sfogarsi amava la quiete e la concentrazione! Così imparai che un insegnante può solo “osservare” e “accompagnare” l’allievo che apprende, incoraggiandone l’indole e aiutandolo a riconoscere le proprie attitudini, senza incasellarlo, mortificarlo, giudicarlo. Ecco “l’unicità dell’apprendimento”!

Daniele aveva poco tempo, la sua vivacità non poteva stare troppo seduta ad aspettare.

Ho capito tutto quel giorno in camera mortuaria a Saluzzo. Quante cose si comprendono di fronte ad un ragazzo che muore nel pieno della vita! Aveva 17 anni. Il suo cuore si era fermato dopo aver esultato per la vincita al pungibal.

Mentre mi  passavano davanti i giorni condivisi insieme, riflettevo che la scuola intreccia vite di cui non conosciamo il cammino. Dovremmo sempre ricordarci d’avere molto rispetto! E dovremmo rendere più significativa la scuola così che possa davvero essere un piacevole scoperta d’apprendere. Invece… quanto tempo stupidamente perso con i nostri allievi! Rincorriamo voti, perdiamo  tempo nelle valutazioni (dimenticando che sono fotografie di un istante che poi cambia), continuiamo stupidamente a programmare percorsi rigidi di ogni disciplina e ci ostiniamo a insegnare seguendo il libro di testo… mentre i ragazzi vivono “altrove” fatiche e incertezze, vuoti  e fragilità, paure o drammi. Non c’è intreccio tra la vita e quello che la scuola chiede.

Daniele a sei anni conosceva già molte più cose delle sua maestra riguardo alla sofferenza e al tempo che vola via in un istante! L’ho capito dopo, l’essenza si comprende sempre alla fine.

Ma la lezione che mi ha dato é per sempre.

Grazia Liprandi – Rete Insegnareducando

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